Il villaggio globale: biogeografia e migrazioni

Gli ambienti fanno restyling? Simeulue, febbraio 2005. Lo tsunami del 24 dicembre 2004 ha da poco sconvolto l’Oceano Indiano, scatenato da uno dei terremoti più violenti che la storia ricordi: 9,3° Richter. Una spedizione scientifica italiana organizzata dall’Università Politecnica delle Marche e dall’Università di Genova è la prima a posare il piede sui reef del nord di Sumatra sconvolti dall’evento per valutare i danni. Posare il piede è il termine giusto, perché a Simeulue, isola nell’oceano Indiano, il punto più prossimo all’epicentro del terremoto, tutta la crosta terrestre è stata spinta verso l’alto di 1-2 m per una lunghezza di costa di oltre 100 km. Madrepore e eliopore che si seccano al sole sono l’espressione più evidente dell’immensa energia che lo scorrimento delle zolle tettoniche può immagazzinare e liberare in pochi secondi. Pochi secondi sono bastati per cambiare le carte geografiche, evento che normalmente noi consideriamo associato a tempi geologici lunghissimi.

La biogeografia è la scienza che studia la distribuzione su scala mondiale delle comunità biologiche e le differenze che esistono a livello di regione. Se consideriamo le comunità marine tropicali, a livello mondiale si individuano bene due grandi regioni biogeografiche, l’Indo-Pacifico (assieme, perché non c’è una separazione netta tra i due oceani) e l’Atlantico.

Per capire come si siano costituite e modellate le due regioni biogeografiche, con un saltino all’indietro di 65 milioni di anni, dobbiamo tornare al periodo Cretaceo. I reef del Giurassico, dell’era dei dinosauri, erano costruiti in prevalenza da bivalvi rudisti. I fossili più antichi ci dicono che madrepore e perciformi erano già presenti, con un ruolo marginale. Il probabile impatto di un asteroide con la superficie terrestre, che fu all’origine della fine dei dinosauri, provocò estinzioni di massa in terra e in mare.

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