“Questa è struttura”. No, non sto parafrasando Matrix, è solo una constatazione scaturita dalla visione di una foto raccolta di scatti in bianco e nero.
Mi piace quando si va dritti al sodo, sia nella vita, che in fotografia. Adoro la potenza di un messaggio visivo quando è trasmesso in modo inequivocabile. Ho la sensazione di non dover sprecare energia arrancando tra l’opulenza del colore e l’ambiguità della composizione.
Trovo molto formativo ascoltare i commenti dei non addetti ai lavori. Spontanei, sinceri, spietati. Non viziati da tecnicismi e pregiudizi, lasciano libero sfogo a ciò che realmente provano quando vedono.
Tutto sommato le nostre immagini sono dedicate a loro non ad altri fotografi!
Spesso il commento è banale. L’immagine è liquidata con un soppesato: “..che bei colori”. Altrettanto interessante è notare come immagini a colori di scarso interesse compositivo, una volta convertite in bianco e nero riscuotano successo nell’emotivo collettivo.
Devo quindi ammettere che sì, il colore distrae dall’intento del fotografo: trasmettere l’unicità della visione.
Non voglio discutere in merito alla veridicità dell’attimo unico e irripetibile, ognuno di noi vede il mondo e gli eventi in modo differente, ma è lecito chiedersi: dove sta la linea di confine tra l’intento e il risultato?
Senza il colore ci si gioca il tutto per tutto. Sensibilità dell’animo, previsualizzazione e composizione sono le regole. Difficili da infrangere questa volta. Per essere creativi l’unico mezzo a disposizione è la lettura della luce e l’immaginazione. Mai abbandonarsi alla casualità del risultato.
Previsualizzare in scala di grigi un’immagine, ancora prima di aver cliccato sul comando “converti”, è cosa assai difficile che richiede allenamento. Per noi fotografi digitali, l’opportunità di osservare su di un monitor come cambia l’immagine, aumentando o diminuendo il contrasto, è una grande fortuna, non sprechiamola!
“La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell’intuito e della spontaneità”, così diceva H.C.Besson.
Se non si è stati iniziati al bianco e nero, ci si sente quasi nudi, con un foglio bianco in una mano e un carboncino da disegno nell’altra.
Spetta a noi decidere l’intensità del tratto.
Io lascio spazio solo alle emozioni, sono loro che guidano la mano, è ciò che provo nel momento dello scatto che mi porta in modo inconscio a decidere come esporre per un determinato fotogramma.
Realizzare scatti in bianco e nero alle volte è una necessità, soprattutto in situazioni di per sé già monocromatiche. Toni, forme e trama, prendono il sopravvento. Il colore non è più visto come una tinta ma come contrasto tonale (valore di luminosità).
Linee guida forti che trasportano l’osservatore dritto al centro d’interesse diventano fondamentali, evitando che l’occhio si perda.
La fotografia in bianco e nero è libertà espressiva. “Low key” per esprimere drammaticità. “Hi key” per un’atmosfera onirica , legata al ricordo. Oppure un’immagine ben equilibrata per dare quel tocco nostalgico. Questi sono gli strumenti per creare l’attimo: sono uguali per tutti, la differenza è fatta da quell’esposimetro naturale che sono gli occhi e il cuore. Non bisogna scadere nel considerare il bianco e nero alla stregua di un rimedio per errori di sovraesposizione o sottoesposizione. Partire da un’immagine ben bilanciata è fondamentale. Rompere l’equilibrio, sbilanciare l’immagine a favore dei grigi scuri o chiari è frutto del discernimento non delle circostanze.
Andare oltre il colore, oltre l’apparenza, solo così un’immagine sarà timbrata a caldo con il nostro “watermark”, per sempre.
Keep shooting
Isabella Maffei
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